di Daniele Del Monaco
“la felicità è un bene comune”
Uno è quello che fa, ciò che produce, ciò che non-produce e ciò che vorrebbe produrre.
Se la sua ricchezza ha una certa relazione con la produttività e con l’adesione a schemi e desideri sociali che forniscono valore e prestigio alla sua produzione, la felicità sembrerebbe dipendere da altri fattori più psicologici e individuali: aspettative, sogni, identificazioni.
Per essere felici possiamo abbassare le nostre pretese oppure lottare testardamente nel tentativo dissennato di perseguirle. Dobbiamo però essere consapevoli che spesso ogni nostro desiderio, nel realizzarsi, viene strappato ad altre persone, come se rubassimo un pezzo della loro felicità.
Vedere realizzato un desiderio è vitale finché questa pulsione ci sovrasta stringendoci nella sua morsa; chi non controlla i propri desideri non potrà mai essere felice.
Eppure -all’opposto- veniamo cresciuti nel culto del desiderio e dell’auto-affermazione. Siamo circondati da modelli vincenti, desideri realizzati, che s’impongono come parametro di riferimento del nostro stare in armonia con la società: o ci riconosciamo in essi oppure, progressivamente, tendiamo a isolarci.
Col post-fordismo il capitale si è pienamente impossessato del desiderio e ha creato un mercato attorno a tanti modelli sociali personalizzati sfornandone quotidianamente di nuovi: prendere o lasciare. La società delle iperspecializzazioni non è affatto solidale e prescinde dal meccanismo industriale o i desiderata collettivi: è una società di sordi egocentrici che non accetta devianze. La vita civile si è trasformata in una lotta fra clan. Il mito del successo personale oltre a mettere gli uni contro gli altri, non garantisce necessariamente la qualità della produzione perché questo mercato si fonda non sull’oggetto del desiderio (la produzione), ma sul desiderio stesso.
La brutalità dello star-system televisivo rende esattamente l’immagine di un’ottusa egolatria autocompiaciuta dove manca l’ascolto reciproco. In perfetta sincronia, il mondo della cultura lancia i suoi moniti d’indignazione contro la volgarità televisiva cercando invano di proporre il proprio star-system e io mi indigno perché non accetto che la cultura sia considerata un mondo a sé (né tantomeno uno star-system).
Molte battaglie a difesa della cultura riguardano -giustamente- il problema della distribuzione della ricchezza in termini di patrimonio e di finanziamenti.
Più rari -ma non assenti- sono i riferimenti al tema politico della rendita d’appartenenza da parte di ceti che dispongono di un sapere più strutturato: di fatto coloro che detengono le redini del consumismo. Rendita che trae un diretto giovamento da una dimensione pseudo-meritocratica e competitiva in cui può accadere che siano gli stessi ceti-subalterni, in una lotta fratricida, ad aderire ai meccanismi distintivi dei ricchi, ai loro canoni estetici. Di conseguenza, nell’accezione corrente e univoca di cultura, c’è una leggera distorsione del concetto: questa parola, così come spesso la intendiamo, può contenere difatti il germe del classismo.
Alle battaglie per la cultura dovrebbero essere affiancate altrettante istanze a favore di una visione che superi quella conservatrice del mecenatismo statale e dello Stato come super-direttore artistico (panem et circenses). Rappresentare (e mettere in vendita) le proprie opere in spazi pubblici deve essere un diritto per chiunque e non solo dei più meritevoli, perché di fronte ai sogni siamo tutti falliti -ontologicamente-.
Questa si che sarebbe una battaglia incentrata sul raffreddamento dei miti che il consumismo genera: primi fra tutti le categorie bello/brutto, oggi anacronisticamente tornate in voga.
Non ci si illuda che, nell’afferrare il desiderio per la coda, non si rimanga scottati perché si è puri. Una concezione positiva di cultura non renderà mai felici.
Non resterebbe in quel caso che aspettare l’ennesimo star-system, messo lì a servire gli stessi poteri.